Alessandro Tonolli annuncia il suo addio. Lo salutiamo con uno stralcio del capitolo dedicato a lui in "La squadra che non c'era". Se poi volete leggere il resto del capitolo e tutto il libro, lo trovate qui.
«Sabato,
al termine della partita, mia moglie mi ha detto di essere orgogliosa
di me. Le ho risposto: Valeria, peccato che ci siamo conosciuti
tardi. Non hai potuto vedere così spesso quanto mi sarebbe piaciuto
il vero Tonolli giocatore». Te lo raccontiamo noi, Valeria. «Se
giocasse a pallavolo, finirebbe in Nazionale» dicevano di lui appena
arrivato a Roma, nel 1994, 20 anni ancora da compiere. E tu, che a
pallavolo hai giocato per anni, saresti stata d’accordo, se non
altro perché probabilmente l’avresti conosciuto prima. Non era un
complimento, però. Era un modo per dire che a parte saltare non è
che potesse fare molto altro. Ma alla fine in Nazionale ci è
arrivato. Di basket. «Era arrivato da poco, dovevamo giocare contro
la Scavolini di Garrett, Costa e Magnifico – ricorda Attilio Caja –
La notte prima quasi non ci ho dormito. Era un azzardo. Lui andò
benissimo. Alessandro è la dimostrazione che attraverso il lavoro si
può arrivare ai massimi livelli». Mille tiri al giorno sotto Dusko
Vujosevic, lunghi esercizi di ball handling con Marco Calvani,
applicazione feroce. Schiacciatore lo è diventato e tante volte ha
fatto tremare i canestri con le sue inchiodate. A lungo è stato uno
dei migliori difensori in Italia. Specialità della casa: fermarsi al
momento giusto e prendere sfondamento. Così perfetto che certi
arbitri quasi godevano nell’indicare il cambio di possesso palla.
Gli saranno venuti addosso tonnellate di muscoli in 19 anni di
carriera. Miglior tiratore al mondo dai 6 metri e 24 centimetri, o
dai 6 e 74, l’importante è mettere il piedino sulla linea del tiro
da tre. Lì non sbaglia mai ed è il primo a scherzarci sopra.
Potresti
anche essere un po’ arrabbiata con lui, perché se fosse stato
diverso avrebbe guadagnato di più. Gli sarebbe bastato non accettare
ogni volta la prima proposta di rinnovo e intavolare lunghe
trattative come facevano i suoi compagni di squadra. Oppure andarsene
quando gli proponevano ingaggi superiori altrove. L’ultima volta
neanche tanto tempo fa, a Pesaro. Ma se fosse stato diverso, e se tu
fossi stata una che guarda a queste cose, non avresti detto “sì”
quel giorno in riva al lago di Garda, di fronte a 4 testimoni. Uno di
loro era Gigi Datome. Eh sì, Valeria, non sa scegliersi bene solo la
moglie, ma anche gli amici. «Sono felice di aver passato a lui la
fascia di capitano». Non l’avrebbe mai lasciata a uno che non ne
fosse stato degno. Anzi, non l’avrebbe mai lasciata a nessun altro
e il suo resta un gesto che ha pochissimi precedenti e nessun
successore. Ne abbiamo passate tante, con lui. Ogni volta che s’è
guardato indietro, non ha mai pensato al risultato ottenuto, ma a ciò
che gli era rimasto dentro. Se pensa a una delusione gli viene in
mente sì la Coppa Italia persa a Napoli («mi sono sentito come se
mi avessero portato via una cosa che mi spettava»), ma di più gli
ottavi di finale contro Trieste nel 2000 («perché di quella
stagione non mi era rimasto niente dentro»). E se gli dite che non
ha vinto nulla, giustamente, s’incazza. «La Supercoppa del 2000
una coppetta? Ma per favore... Battemmo due squadroni e per noi aveva
un grande valore, perché stava nascendo un grande gruppo». Quel
gruppo perse per uno sfondamento fischiato ad Allen su Marcus Brown.
Non c’era. Brown non era mica bravo a prendere sfondamenti come
Tonolli. Nessuno lo era. Anche nelle ultime stagioni non gli era
rimasto niente dentro. E se poteva puntare i piedi non l’ha fatto,
perché lui il capitano l’ha sempre fatto in punta di piedi. Prima
di tutto viene il bene della Virtus. «È un vero capitano, è il
nostro vero leader» disse di lui Dejan Bodiroga, uno che qualche
“giocatorino” nella sua carriera l’ha incontrato...
Gli
vogliamo bene, Valeria, ma tu non esserne gelosa. Lui stesso non sa
cosa sia la gelosia, generoso com’è, nella sua storia d’amore
con la Virtus. Non bisogna essere gelosi della Virtus, è un qualcosa
di talmente bello che va condiviso con più persone possibile. A chi
vorrebbe stare per sempre chiuso al Palazzetto, solo con quelli che
veramente vogliono bene alla Virtus, bisognerebbe far leggere cosa
disse in un’intervista nel 2006 realizzata sui gradini del
Palazzetto. «A loro, a quelli che ci sono sempre stati, dico solo
una cosa: quando verranno diecimila persone, non verranno solo per
vedere noi, ma anche per vedere loro». Il cronista lo abbracciò.
(...)
Eravamo
figli, figlie, studenti, fidanzati, mariti, mogli, genitori. Oggi
siamo fidanzati, lavoratori, qualcuno licenziato o cassaintegrato,
sposati, qualcuno già separato e qualcuno già padre e madre, nonni.
Lui c’è ancora, con meno capelli. «Qualche tempo fa in un
aeroporto si è avvicinato un signore mostrandomi una foto di qualche
anno fa. Eravamo io, lui e suo figlio piccolo. Poi mi presenta il
figlio: era diventato un marcantonio di 1.90». Ecco, non è lui che
è invecchiato con noi, non è mica un personaggio di una telenovela.
Siamo noi ad essere cresciuti con lui. Quando smetterà, ci sentiremo
di colpo tutti un po’ più vecchi, mentre lui sarà sempre quel
ragazzo di 19 anni che nel 1994 ha esordito contro Orlando Woolridge
ed era già così bravo a prendere sfondamenti.
Nel
1994 nasceva Matteo Tambone, che è sceso in campo con lui sabato 11
maggio 2013 contro Reggio Emilia, in una partita di playoff. A un
certo punto ha segnato e tutti lo hanno applaudito. Poi ha
preso fallo di sfondamento e Tonolli gli ha accarezzato la testa.
Soprattutto, persona educata. Che di questi tempi non è poco...
RispondiEliminaUna rarità. Bello che sia stato sempre con noi.
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