Da Il Romanista di oggi
La Coppa dei Campioni
vinta dal Bancoroma trent'anni fa, il 29 marzo 1984, è stato il
punto più alto della storia dello sport romano, almeno per quanto
riguarda gli sport di squadra. Nel calcio è andata com'è andata,
nel basket la coppa più importante l'abbiamo presa. Sì, l'abbiamo
presa tutti quella coppa, perché la storia di quel successo è una
storia di uomini, atleti, appassionati, sentimenti che spingono
talmente tanto e talmente forte verso l'obiettivo, al punto da
raggiungerlo quasi naturalmente.
E' la storia di una
squadra vera. Ancora oggi, se nomini il Bancoroma a chi l'ha visto e
vissuto, non ti dice “Ah, lo scudetto... ah, le coppe...” Ti
dice: “Ah, che squadra....” Ragazzi romani, altri che lo
divennero, un campione, un altro americano cui non si poteva non
voler bene, un allenatore che sapeva parlare al cuore di una città...
Tutti fattori che danno a quella storia i crismi dell'unicità, per
cui non è vero che ancora oggi se ne parla perché in 30 anni
nessuno ha più vinto lo scudetto. Se ne parlerebbe allo stesso modo
anche se altri fossero riusciti nella stessa impresa. Ma una squadra
diversa difficilmente avrebbe vinto a Ginevra. Forse neanche ci
sarebbe arrivata, perché il Banco dopo le sconfitte con Barcellona,
Cantù e Bosna Sarajevo, era spacciato. “Dovrebbe concentrarsi solo
sul campionato”, scrivevano. Invece vinse le ultime sei partite del
girone finale e si conquistò la finale contro il Barcellona di San
Epifanio, Solozabal, Sibilio, Starks e Davis, pivot americano che
aveva giocato nel Bancoroma dal 1978 al 1981.
Non c'era una squadra
favorita in quella partita. Era una, però, quella all'appuntamento
col destino: il Bancoroma poteva diventare la prima squadra a vincere
la coppa da esordiente, Bianchini il primo allenatore a vincerla con
due squadre diverse (c'era riuscito alla guida di Cantù), Larry
Wright il primo giocatore a vincere il campionato NBA, un campionato
in Europa e la Coppa Campioni. Rischiò di non giocarla, per problemi
fisici e non solo. Ma la molla era troppo forte e siccome lui, nero
della Louisiana, per prendersi qualcosa ha sempre bisogno di avere
l'impressione che qualcuno gliela stia portando via, nell'intervallo,
col Banco sotto di 10 punti, prese in mano la situazione: “Nessuno
pensa che ce la possiamo fare. Sono il leader della squadra, sento di
dover fare qualcosa. Negli spogliatoi dico al coach e ai compagni di
fidarsi di me: ce la facciamo, saremo campioni d'Europa. Dobbiamo
rientrare in campo e non commettere più gli errori del primo tempo.
L'esperienza del college mi ha insegnato che una partita di basket
non è mai finita. L'opera non finisce finché non canta la cicciona,
cioè il soprano. Bisogna correre, fino a quel momento l'abbiamo
fatto male. Quella era una squadra che sapeva di avere bisogno del
contributo di tutti”.
Su cosa accadde in
quell'intervallo, è stato detto di tutto. Valerio Bianchini la
racconta così: “Noi allenatori, seguiti dai giocatori, ci
avviavamo verso lo spogliatoio. Ed ecco che la nostra strada è
attraversata da un dirigente del Barcellona, con alcune bottiglie di
champagne. Non solo, vedo Larry che si sofferma ad ascoltare le
parole che gli sussurra nell'orecchio Mike Davis: 'Ehi Larry, mi sa
che stavolta il premio non lo becchi'. Larry entrò per ultimo nello
spogliatoio, sbattendo la porta con violenza, il viso contraffatto,
gli occhi di fiamma e il ghigno bianchissimo sul suo volto nero.
Esclamò con ardore una serie di frasi nello slang della Louisiana di
quelle che noi allenatori non capiamo e siamo contenti di non capire.
Poi raccontò l'episodio agli altri e le parole ebbero un potere
detonante, molto più delle indicazioni tecniche che avevo in mente
per raddrizzare la partita”.
Ha preso il pallone e
non l'ha più fatto vedere a nessuno, compagni o avversari che
fossero. Ha guidato la squadra alla rimonta, al pareggio, al
sorpasso. Ma gli ultimi punti sono arrivati da un tiro sghembo di
Gianni Bertolotti e dalla freddezza di un giovanissimo Stefano
Sbarra, che a soli 22 anni entrò in campo senza paura di niente.
Wright non la vinse da solo, la vinse perché dietro di lui c'era una
squadra vera. Kea dominò ai rimbalzi (aiutato da Polesello)
sfiancando Starks e Davis, Gilardi segnò poco ma caricò di falli
San Epifanio, Solfrini seppe tenere a bada Sibilio e segnò due
canestri decisivi nel secondo tempo, senza dimenticare Tombolato.
Ragazzi che si dimostrarono una squadra vera anche nel sopportare i
capricci di Larry Wright, che da quando s'infortunò a inizio
stagione, non fu più lo stesso dell'anno prima. Diffidente verso
tutti, al punto, come detto, di sparare a zero il giorno prima della
gara più importante. Ma lui poteva portare alla vittoria quel
gruppo, che seppe restare unito. Al resto pensò Bianchini, che seppe
far capire ai giocatori che si trovavano di fronte a un'occasione che
probabilmente non sarebbe ricapitata. Non ricapitò. E infatti se la
presero, insieme al loro allenatore e ai loro tifosi.
Già,
i tifosi. Più di tremila persone giunti in Svizzera con ogni mezzo
costituiscono la più grande trasferta internazionale mai fatta per
una squadra romana in qualsiasi sport che non sia il calcio. Chi
poteva prese un charter, gli altri viaggiarono di notte con pullman e
macchine, si mossero le scolaresche, professori e genitori chiusero
vari occhi nei confronti dei loro figli, oppure partirono insieme a
loro indossando i cappellini con visiera anni 80 che il Bancoroma
distribuì a Ginevra. “Il ricordo più grande – ci ha raccontato
Enrico Gilardi - è aver visto e conosciuto l'entusiasmo di tanti
romani per il basket. Si sono imbarcati con tutti i mezzi possibili
per raggiungere la Svizzera. Gente di tutte le età che quel giorno
voleva esserci. A tanti anni di distanza, la gente che incontro
ancora parla di quegli anni come qualcosa vissuta personalmente. I
tifosi avevano fatto lo stesso percorso nostro e Ginevra fu il
simbolo di tutto ciò. Coinvolgemmo tanta gente normale, non solo
appassionati. Smuoverli da casa per venire fino a Ginevra fu
importantissimo. Il calore che sentimmo è un ricordo che ancora oggi
mi porto dentro”.
E' un ricordo che
portiamo dentro tutti. Così forte che è diventato tale anche per
chi non l'ha vissuto. Sia per quanto ne ha sentito parlare, sia
perché di fronte a chi ha vinto svariati scudetti consecutivi può
sempre rispondere che lui sul tetto d'Europa c'è stato. Anche se non
c'era. Perché queste ricorrenze servono anche per ricordarsi (e
ricordare, se serve) che chiunque, a qualsiasi titolo, prende parte
alla storia della Virtus di oggi, ha l'onore e il dovere di sentirsi
custode di quella coppa e di quella storia.
Irripetibile, verrebbe
da dire, se non fosse che si darebbe un dispiacere al presidente
dell'epoca Eliseo Timò. “Questa storia deve essere ripetibile”,
ama ripetere con forza in ogni occasione in cui viene chiamato per
festeggiare i successi del Bancoroma. Lo dirà anche stasera.
Bancoroma-Barcellona
79-73
Bancoroma:
Wright 27 (13/32), Sbarra 8 (2/7), Kea 17 (6/11), Tombolato 5 (1/3),
Gilardi 4 (1/6), Polesello 8 (2/4), Solfrini 8 (4/8), Bertolotti 2
(1/5), Salvaggi n.e., Grimaldi n.e. All. Bianchini
Barcellona:
Santillana n.e., Seara 2 (1 /2), Sibilio 4 (2/4), Solozabal 6 (3 /4),
Flores n.e., Ansa 11 (3/7), Starks 12 (5/8), De La Cruz 4 (1 /2),
Davis 3 (1/ 2), San Epifanio 31 (12/19). All. Serra
Arbitri:
Grigoriev (Urss), Rigas (Gre)
Spettatori:
8000
Note: Tiro: Bancoroma 30/76,
Barcellona 28/48. Tiri liberi: Bancoroma 19/27, Barcellona 17/21.
Rimbalzi: Bancoroma 21 (Kea 9), 11 offensivi; Barcellona 16 (Davis
5), 4 offensivi. Palle perse: Bancoroma 7 (Bertolotti 2), 4
recuperi; Barcellona 14 (Davis 5), 10 recuperi
che ricordi ....brividi e lacrime...
RispondiEliminaSerata indimenticabile che capita una volta nella vita e io ero li con una grande squadra che rimarra nella storia del basket romano.
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