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lunedì 6 luglio 2015
In (possibile, probabile) morte della Virtus Roma
“Se oggi la Virtus è l'unica realtà di vertice dello sport romano – a parte Roma e Lazio – a non essere mai sparita negli ultimi 30 anni, è perché ancora resiste un sentimento nato 30 anni fa. E se c'è un motivo per cui non bisogna farla sparire, è proprio quel sentimento, anche se ora se ne sta un po' nascosto. Sballottato tra Palaeur, là dove nello stesso spazio in cui oggi ci sono due sedie vuote allora entravano 4 persone, e Palazzetto. Cercando sul soffitto quegli stendardi che, ricordando i trofei, ti ricordano da dove provieni. Deluso e rimasto a casa, a “spizzare” i risultati su internet o sul televideo, ostentando a fatica distacco. E' un qualcosa che si è tramandato spontaneamente nel tempo, che ha bisogno di tanto coraggio, ma che vale la pena di essere vissuto. Spiegarlo è più difficile che viverlo. Oppure è la stessa cosa. E' capirsi da uno sguardo, soli in mezzo a tanti. O in mezzo a pochi, fa lo stesso, tanto gli altri non lo capiscono. E' la più anomala delle passioni sportive, che ti fa leggere i giornali sportivi al contrario e non ti fa mai andar via prima della fine, perché non c'è il problema del traffico. E' invecchiare insieme al vicino di posto o vedere il bambino che stava sempre in quarta fila accanto alla madre diventare alto 1 metro e 90. E' sentirsi soli. A Roma, dove nessun altro capisce che si può provare per una squadra di basket quello che si prova per una squadra di calcio. Nell'Italia della pallacanestro, dove nessuno si pone il dubbio che anche a Roma possa esserci la stessa passione che c'è altrove. E' fare cose senza senso. Andare a Settebagni per un'amichevole del 14 agosto, a Ginevra per la finale di Coppa dei Campioni, a Reggio Calabria per retrocedere, a Pesaro per nascondersi nei bagni prima della finale di Korac perché non hai il biglietto, a Mestre per il funerale di un giocatore. Passare la notte da solo per le vie di Forlì perché hai perso il treno ma Ansaloni ti ha fatto felice all'ultimo secondo, piangere a Forlì, 10 anni dopo, perché la Coppa Italia se n'è andata. Saper prevedere un'ora prima della partita quanti spettatori ci saranno in base alle macchine parcheggiate sulla collina dell'Eur, contare uno per uno i presenti contro la Francorosso Torino o contro il Pau Orthez. E' troppo bello per poter essere tradito. Scusate se lo chiamiamo amore. L'abbiamo maledetto e l'abbiamo difeso, questo amore. Mentre lasciavamo che la voce finisse rimanendo afoni fino al mercoledì, mentre ci lasciavamo andare seduti sul prato accanto al capitano, mentre gli arbitri non ci lasciavano vincere. La rimessa era nostra, non era fallo in attacco di Allen, ma era fallo su Righetti e il canestro di Gilardi era buono. Lasciavamo che Obradovic piangesse, che Henson decidesse di veder nascere il figlio, che Tusek prendesse in braccio il figlio, che Nando il magazziniere ci trattasse come figli. Mentre i genitori non ci lasciavano andare in trasferta, gli amici che non volevano capire ci lasciavano perdere, le ragazze che non potevano capire ci lasciavano. Ci lasciavano i campioni come Parker e Sconochini, ma ci lasciavano sognare con il passo e tiro di Bodiroga e Ancilotto. Sogni d'agosto, finché un giorno d'agosto non ci avrebbe lasciati anche lui. Davide”.
1 commento:
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Non so quante volte ho letto questo articolo, comunque ad ogni lettura trovo "qualcosa" che non avevo letto la volta precedente. E così mi ritrovo sempre a pensare a quegli anni come qualcosa che nessuno potrà mai togliere dai miei più bei ricordi.
RispondiEliminaGrazie.
Roberto Candidi