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sabato 17 maggio 2014

Alessandro Tonolli. Grazie.



Alessandro Tonolli annuncia il suo addio. Lo salutiamo con uno stralcio del capitolo dedicato a lui in "La squadra che non c'era". Se poi volete leggere il resto del capitolo e tutto il libro, lo trovate qui.

«Sabato, al termine della partita, mia moglie mi ha detto di essere orgogliosa di me. Le ho risposto: Valeria, peccato che ci siamo conosciuti tardi. Non hai potuto vedere così spesso quanto mi sarebbe piaciuto il vero Tonolli giocatore». Te lo raccontiamo noi, Valeria. «Se giocasse a pallavolo, finirebbe in Nazionale» dicevano di lui appena arrivato a Roma, nel 1994, 20 anni ancora da compiere. E tu, che a pallavolo hai giocato per anni, saresti stata d’accordo, se non altro perché probabilmente l’avresti conosciuto prima. Non era un complimento, però. Era un modo per dire che a parte saltare non è che potesse fare molto altro. Ma alla fine in Nazionale ci è arrivato. Di basket. «Era arrivato da poco, dovevamo giocare contro la Scavolini di Garrett, Costa e Magnifico – ricorda Attilio Caja – La notte prima quasi non ci ho dormito. Era un azzardo. Lui andò benissimo. Alessandro è la dimostrazione che attraverso il lavoro si può arrivare ai massimi livelli». Mille tiri al giorno sotto Dusko Vujosevic, lunghi esercizi di ball handling con Marco Calvani, applicazione feroce. Schiacciatore lo è diventato e tante volte ha fatto tremare i canestri con le sue inchiodate. A lungo è stato uno dei migliori difensori in Italia. Specialità della casa: fermarsi al momento giusto e prendere sfondamento. Così perfetto che certi arbitri quasi godevano nell’indicare il cambio di possesso palla. Gli saranno venuti addosso tonnellate di muscoli in 19 anni di carriera. Miglior tiratore al mondo dai 6 metri e 24 centimetri, o dai 6 e 74, l’importante è mettere il piedino sulla linea del tiro da tre. Lì non sbaglia mai ed è il primo a scherzarci sopra.

Potresti anche essere un po’ arrabbiata con lui, perché se fosse stato diverso avrebbe guadagnato di più. Gli sarebbe bastato non accettare ogni volta la prima proposta di rinnovo e intavolare lunghe trattative come facevano i suoi compagni di squadra. Oppure andarsene quando gli proponevano ingaggi superiori altrove. L’ultima volta neanche tanto tempo fa, a Pesaro. Ma se fosse stato diverso, e se tu fossi stata una che guarda a queste cose, non avresti detto “sì” quel giorno in riva al lago di Garda, di fronte a 4 testimoni. Uno di loro era Gigi Datome. Eh sì, Valeria, non sa scegliersi bene solo la moglie, ma anche gli amici. «Sono felice di aver passato a lui la fascia di capitano». Non l’avrebbe mai lasciata a uno che non ne fosse stato degno. Anzi, non l’avrebbe mai lasciata a nessun altro e il suo resta un gesto che ha pochissimi precedenti e nessun successore. Ne abbiamo passate tante, con lui. Ogni volta che s’è guardato indietro, non ha mai pensato al risultato ottenuto, ma a ciò che gli era rimasto dentro. Se pensa a una delusione gli viene in mente sì la Coppa Italia persa a Napoli («mi sono sentito come se mi avessero portato via una cosa che mi spettava»), ma di più gli ottavi di finale contro Trieste nel 2000 («perché di quella stagione non mi era rimasto niente dentro»). E se gli dite che non ha vinto nulla, giustamente, s’incazza. «La Supercoppa del 2000 una coppetta? Ma per favore... Battemmo due squadroni e per noi aveva un grande valore, perché stava nascendo un grande gruppo». Quel gruppo perse per uno sfondamento fischiato ad Allen su Marcus Brown. Non c’era. Brown non era mica bravo a prendere sfondamenti come Tonolli. Nessuno lo era. Anche nelle ultime stagioni non gli era rimasto niente dentro. E se poteva puntare i piedi non l’ha fatto, perché lui il capitano l’ha sempre fatto in punta di piedi. Prima di tutto viene il bene della Virtus. «È un vero capitano, è il nostro vero leader» disse di lui Dejan Bodiroga, uno che qualche “giocatorino” nella sua carriera l’ha incontrato...

Gli vogliamo bene, Valeria, ma tu non esserne gelosa. Lui stesso non sa cosa sia la gelosia, generoso com’è, nella sua storia d’amore con la Virtus. Non bisogna essere gelosi della Virtus, è un qualcosa di talmente bello che va condiviso con più persone possibile. A chi vorrebbe stare per sempre chiuso al Palazzetto, solo con quelli che veramente vogliono bene alla Virtus, bisognerebbe far leggere cosa disse in un’intervista nel 2006 realizzata sui gradini del Palazzetto. «A loro, a quelli che ci sono sempre stati, dico solo una cosa: quando verranno diecimila persone, non verranno solo per vedere noi, ma anche per vedere loro». Il cronista lo abbracciò.

(...)

Eravamo figli, figlie, studenti, fidanzati, mariti, mogli, genitori. Oggi siamo fidanzati, lavoratori, qualcuno licenziato o cassaintegrato, sposati, qualcuno già separato e qualcuno già padre e madre, nonni. Lui c’è ancora, con meno capelli. «Qualche tempo fa in un aeroporto si è avvicinato un signore mostrandomi una foto di qualche anno fa. Eravamo io, lui e suo figlio piccolo. Poi mi presenta il figlio: era diventato un marcantonio di 1.90». Ecco, non è lui che è invecchiato con noi, non è mica un personaggio di una telenovela. Siamo noi ad essere cresciuti con lui. Quando smetterà, ci sentiremo di colpo tutti un po’ più vecchi, mentre lui sarà sempre quel ragazzo di 19 anni che nel 1994 ha esordito contro Orlando Woolridge ed era già così bravo a prendere sfondamenti.


Nel 1994 nasceva Matteo Tambone, che è sceso in campo con lui sabato 11 maggio 2013 contro Reggio Emilia, in una partita di playoff. A un certo punto ha segnato e tutti lo hanno applaudito. Poi ha preso fallo di sfondamento e Tonolli gli ha accarezzato la testa.

2 commenti:

  1. Soprattutto, persona educata. Che di questi tempi non è poco...

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  2. Una rarità. Bello che sia stato sempre con noi.

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