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giovedì 30 gennaio 2014

Jordan Taylor, una risata vi seppellirà

Momento difficile, per Jordan Taylor. Per fargli l'in bocca al lupo, sperando di rivederlo prestissimo in campo, pubblichiamo uno stralcio del capitolo dedicato a lui contenuto in La squadra che non c'era, il libro sulla Virtus Roma 2012-13.




Jordan Taylor: una risata vi seppellirà

Jordan di secondo nome fa Michael. E quando è nato, il 30 settembre 1989 a Bloomington, Michael Jordan era già qualcuno. Dev’essere un vero e proprio malato di basket papà Louis, e non solo per averlo chiamato Michael Jordan al contrario. «Dato che sono venuto a giocare a Roma, mi ha subito raccontato di Larry Wright. Lo aveva visto giocare a Grambling». Mica a Washington,lì sarebbero stati capaci tutti. Per conoscere Jordan Taylor, stavolta con i nomi nell’ordine giusto, bisogna partire dall’inizio. Dalle ore spese sul campo quando aveva 9 anni e le litigate col fratello Brandon, che una volta s’è visto lanciare addosso un joystick del Nintendo. Certo, il fratello un po’se le cercava. «Mi diceva che somigliavo a Carlton». Mica Myers. «Il cugino di Willy, il principe di Bel Air».

«Doveva segnare 10 tiri di seguito – racconta papà Louis – e a ogni errore ricominciavamo». «Ma quando sbagliavo non mi rimproverava. Mi spiegava come dovevo fare per tirare meglio. Io diventavo matto e gli dicevo di lasciarmi solo. Senza di lui non sarei diventato quello che sono». «Non devi avere mai paura di fallire» era l’insegnamento cui Louis teneva di più. Non ce l’ha, Jordan, e per questo non sbaglia quando conta. L’abbiamo imparato a Roma, ma succedeva anche prima. A Wisconsin (dove saranno fieri di sapere che lui è arrivato in finale e Travis Diener, che viene dall’odiata Marquette, è uscito ai quarti) non lo ricordano per aver sbagliato il tiro della disperazione nella gara decisiva contro Syracuse. Hanno solo ricordi positivi. Lo ricordano per i 14 punti nel secondo tempo che nel 2011 portarono alla vittoria contro Indiana, per i 21 punti degli ultimi 27 che diedero la vittoria contro Ohio State e il ranking più alto del college dal 1962, per i 18 degli ultimi 24 che portarono al supplementare e alla vittoria contro Penn State nel 2010. «Michael Jordan Taylor!» urlò il telecronista quel giorno, 24 gennaio 2010. Basta invertire l’ordine dei nomi.

All’inizio c’è anche mamma Lezlie. Insegna nel Minnesota alla St.Margaret School, la high school dove Jordan ha chiuso a 22.1 punti e 7.1 assist di media. «Gli ho sempre detto che ogni mattina deve alzarsi e pensare a fare il meglio possibile». Lui fa così. «Che sia andata bene o male, in campo e fuori, il giorno dopo per lui è un giorno nuovo» diceva di lui Bo Ryan, coach di Wisconsin. «Se ha giocato male, lavora ancora più duramente e ne esce più forte». Come gli ha insegnato mamma Lezlie: «Sono orgogliosa di lui, della sua etica del lavoro e della sua umiltà». (...)

Un nuovo romano, uno spirito napoletano, occhi spalancati e sorriso sempre stampato in faccia. Anche se per due volte gli rompono il naso o gli fanno saltare le lenti a contatto. «Se sta male non te lo dice – racconta sempre il suo ex coach Bo Ryan – e questo è un po’ pericoloso. Fortunatamente si ferma prima di fare danni. Mai visto uno così competitivo. È un leader naturale. Potrebbe guidare indifferentemente una squadra, un’azienda, una nazione». (...)

«È bello passare la palla». Forse sta tutto qui, Jordan Michael Taylor. Occhi grandi per vedere tutto, per guardare lontano. Semplicità. Per Natale ha chiesto due cose: «Riabbracciare i miei genitori, che vengono a trovarmi (e così finalmente ha aperto gli scatoloni che nel suo appartamento erano ancora chiusi da agosto... N.d.Spia) e che iMinnesota Vikings si qualifichino per i playoff NFL». Sono usciti alle wild-card contro i Green Bay Packers. Se avessero avuto un Quarterback come Jordan Taylor, sarebbero arrivati al Super Bowl. Lui è andato a vederlo, tornato dalla sconfitta a Reggio Emilia in regular season, all’Hard Rock Cafè di Via Veneto. «Mi spiace, la cucina ormai è chiusa». Al mortificato cameriere ha risposto con un sorriso dei suoi. Di quelli che fa ai tifosi, ai compagni, agli avversari che gli rompono il naso e gli fanno saltare le lenti a contatto, di quelli che bucano pure la maschera protettiva. 

Michael Jordan mica li sapeva fare, certi sorrisi.

Se poi, in fin dei conti, volete leggere il capitolo per intero, e anche tutti gli altri, dovete leggere "La squadra che non c'era", che trovate qui.

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